di Giovanni Zandonella Maiucco
Architetto: un linguaggio difficile
Soprintendenze ultimo baluardo a difesa delle memorie
Essere architetto, si sa, non è garanzia di superiore qualità in materia di gestione delle forme e degli spazi antropici. Non è maternità di bellezza, di armonia, di equilibrio formale come molti, ancora, possono credere. È un lasciapassare, uno tra i pochi, per raccontare il proprio punto di vista (…)
Figura 1: Complessità ( gelosie di Villa Mirra Cavriana Mn)
Essere architetto
Essere architetto, si sa, non è garanzia di superiore qualità in materia di gestione delle forme e degli spazi antropici. Non è maternità di bellezza, di armonia, di equilibrio formale come molti possono credere. E’ un lasciapassare, uno tra i pochi, per raccontare il proprio punto di vista in un processo di trasformazione e modificazione dei luoghi che sempre meno appartiene ad un’identità collettiva, a vantaggio di un individualismo spesso esasperato e fuori luogo.
Essere architetto è un’opportunità per raccontare, con il linguaggio delle forme e con parole proprie, la gente e il suo agire. Per alcuni è buon lavoro; per molti è una sorta di missione che travalica la semplice applicazione di energia finalizzata alla formazione di ricchezza; è un percorso senza fine che porta a conoscere sospirate “certezze” … che spesso si reggono su innumerevoli “dubbi”.
Eccola una certezza: il dubbio.
Sono i dubbi che fanno crescere l’architetto. E’ la convinzione che la “soluzione giusta” non è quella appena trovata ma, forse, quella che starà nel foglio successivo; quella di domani. In questo mestiere, chi cammina nella “certezza” finisce per perdersi nella quotidianità, trascinando con se chi è più debole.
Se si concorda sulla certezza del dubbioallora, essere e fare l’architetto significa sapersi mettere in discussione e sapersi confrontare, saper ascoltare le ragioni degli altri, non solamente sentirle. È un mestiere difficile, spesso di contrasto.
“Un’ opera -scriveva Louis Kahn raccontando il suo mestiere-, viene realizzata tra i rumori soverchianti dell’industria e quando la polvere si posa, la piramide, echeggiante il silenzio, porge al sole la sua ombra”.
Rumori soverchianti che nel nostro conciliabolo significano conflitti: quelli che precedono e spesso accompagnano ogni opera. Conflitti di competenza, culturali, discrezionali che divengono le facce della piramide; scontri nei quali l’architetto deve difendersi ed orientarsi per condurre la propria opera, come scrive Kahn, al “cospetto del sole”.
Nell’arena del dibattito, che affina o falcia il vertice della piramide, trovano posto numerosi soggetti. Vi sono i valutatori che siedono nelle Commissioni Edilizie e che spesso, purtroppo, sostituiscono il loro importante ruolo di garanti del processo abilitativo con quello di difensori del proprio “gusto”. Si dice siano uomini e donne di ogni mestiere che si offrono con dichiarata e spavalda competenza al capezzale di questo malato muto. Siano perdonati molti di loro, soprattutto quelli nominati per soli meriti politici o di simpatia, perché non essendo addentro alla materia non sanno quello che fanno. A nulla valgono le giustificazioni postume e le lamentele dell’architetto, che vede trafiggere il proprio lavoro e con esso, ore e ore di studio ed impegno; allo stesso architetto inoltre spesso è negata anche una coerente motivazione.
Per le zone assoggettate a tutela paesistica ambientale, la libertà d’infierire sull’opera in progetto è poi una costante locale. Si dice che esperti in materia di tutela paesistico-ambientale, non in possesso di “comprovata esperienza” ma coerentemente abilitati dall’ “ovvero”[1] di cui all’art. 5 della L.R. Lombardia 18/97 facciano a volte sfoggio di spudorata discrezionalità; un’imprudenza che sempre più alimenta i ricorsi al tribunale amministrativo. Anche in questo caso la carenza di motivazione nei singoli pareri la fa da padrona e l’architetto è spesso costretto a subire il dito indice di un “delegato” che in molti casi, purtroppo, non è neppure un lontano collega, ovvero è un collega che la felice sorte ha colmato d’ immense “certezze ”. Purtroppo è così.
La verifica paesistico-ambientale in Lombardia, si sa, è ormai in piena crisi dopo che la regione ha inteso sancire, in forza del principio di sussidiarietà, che il livello di governo comunale è quello più adeguato alla gestione delle valutazioni di trasformazione paesistico-ambientale; ed ancora, che per svolgere il compito dell’esperto in tale settore è necessario essere in possesso di “comprovata esperienza” ovvero (che sta a significare: è la stessa cosa) aver partecipato ad un corso “mordi e fuggi” di una ventina di ore promosso o autorizzato dalla Regione stessa.
Il porto delle Soprintendenze, unico baluardo rimasto a difesa delle memorie e del paesaggio, dovrebbe essere per l’architetto un approdo sicuro. I valutatori di tali uffici non sono chiamati ad assumere il ruolo ad intuito personae, come invece avviene per i valutatori di cui L.R. 18/97; al Ministero dei Beni Culturali i funzionari sono assunti per formale concorso, per cui il dialogo su ogni progetto di trasformazione o di salvaguardia avviene con pertinente competenza. Ma questo approdo non è sempre così sicuro. Spesso si sviluppano frizioni sulle scelte di progetto che nulla hanno a che fare con la tutela delle memorie e con gli aspetti peculiari del paesaggio inteso nella sua globalità. L’eccesso di discrezionalità, che a volte esprime il funzionario ministeriale, fermo e saldo nelle sue “certezze” senza spazio di confronto, con i colleghi che gli stanno di fronte, è il punto di flesso di questa vera istituzione di tutela. Quando poi si registra che su problemi similari le diverse Soprintendenze danno risposte sostanzialmente differenti, si rischia di alimentare uno sconforto che allontana la fiducia ed alimenta la polemica. Va compreso che la carenza d’organico, del quale sono vittime questi uffici, li costringe a ridurre i tempi d’analisi dei progetti e di dialogo con i professionisti. Ma ciò non è una buona ragione per non mettersi in discussione e rendersi disponibili all’ascolto e poi al confronto.
Postfazione
Questo articolo è stato scritto per la stampa di settore nei primi anni duemila e scaturisce dal dibattito aperto, tra soggetti progettisti e soggetti deputati al controllo, facenti parti di commissioni all’uopo predisposte.
La possibilità di valutare progetti da parte dei comuni, per il tramite di commissioni interne adeguatamente formate, ha manifestato, in quegli anni 90 ( con un’Italia appena uscita da tangentopoli e con un desiderio smodato di autonomia ), un fiorente interesse del soggetto pubblico, con ricadute positive nello snellimento procedurale ed amministrativo.
Un’opportunità – quella offerta dalla legge regionale lombarda- che ha sollecitato a partecipare, nel ruolo di attori-valutatori, una pluralità di soggetti locali, esperti di settore, ma ahimè non sempre portatori di adeguato curriculum.
Ciò ha innescato una acerba polemica tra il ruolo del progettista e quello del valutatore che a distanza di circa 25 anni dalla L.R. 18/97 non ha ancora trovato pace.
E’ pur vero che le commissioni sono state via via integrate da soggetti competenti e titolati, ma la “decisione finale” sul processo di valutazione non ha smesso di frequentare i tribunali amministrativi e non di rado con risultati a vantaggio dei ricorrenti.
La figura dell’architetto, chiamata a rappresentare il proprio tempo, anzi ad anticiparne – com’ è giusto che sia – il divenire, lamenta allora come oggi, una certa ristrettezza nella “libertà del segno”.
Sarà necessario procedere insieme, valutatori e progettisti.
Sarà indispensabile chiedere ai progettisti di affinare il segno, senza perdere il contatto con i luoghi. Allo stesso modo, sarà necessario chiedere al valutatore competenza, e capacità di motivare le sue determinazioni; non solamente affermarle apoditticamente e dogmaticamente.
GZM
Commento
In questo articolo, che ho pienamente apprezzato, l’autore nasconde, in una lettura di secondo livello, in trasparenza, alcuni temi di assoluta importanza per la nostra professione. Temi con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente, dal momento in cui prendiamo in mano la matita o la penna (due momenti differenti). Essere architetto è per alcuni “un lavoro”, per altri “un mestiere”, per altri “una missione”, per i più, fortunatamente “una professione”. I termini non hanno uguale significato. Poi il tema del dubbio, che è esattamente quello che ci distingue da chi fa “ingegneria” e da tutti i portatori di certezze. Soprattutto traspare il tema della “competenza” e, a monte, l’imponente muro della “formazione”. Noi, che esercitiamo la professione camminando sempre sul bordo sottile del dubbio, del “mettere in discussione” e giustificare l’esito, ci troviamo giudicati da chi detiene certezze acquisite in un percorso formativo che nulla ha “a che fare” con l’esercizio quotidiano della ricerca, della passione, della lettura e della riflessione. La formazione della figura di architetto non ha termine mai epperò viene sottoposta a giudizio da che si crede giunto al vertice perché “sa”… Un tema che tratteremo, quindi, più diffusamente, quello della Formazione.
Andrea Guastalla
[1] Art. 5 – Integrazione delle commissioni edilizie comunali
1. Le commissioni edilizie comunali, nell’esercizio delle funzioni subdelegate, sono integrate da almeno due esperti in materia di tutela paesistico-ambientale in possesso di comprovata esperienza, risultante dal curriculum individuale, ovvero acquisita mediante la partecipazione ad appositi corsi di formazione, promossi o riconosciuti dalla regione.